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15 ottobre 2013
Nei Cie gravi violazioni dei diritti, usarla solo “come misura eccezionale”.
Denuncia del Comitato nazionale per la bioetica nel documento “La salute dentro le mura”.

Chiudere i centri di identificazione ed espulsione, o quantomeno ridurli a misura eccezionale, con prestazioni sanitarie a cura del servizio sanitario nazionale. È questa la raccomandazione del Comitato nazionale per la bioetica contenuta nel documento La salute dentro le mura, che dedica ampio spazio al problema della salute nelle carceri e nei Cie per gli stranieri.
Difficoltà di comunicazione, mancanza di legami familiari o di relazioni sul territorio, impossibilità di lavorare e studiare e mancato accesso alle misure alternative sono i principali problemi per i detenuti stranieri segnalati dal Comitato, che raccomanda come prioritaria “la presenza in carcere, non episodica, del servizio di mediazione culturale”.
Ma è nei Cie che il diritto alla salute “è soggetto a tali limitazioni da rendere dubbio l’uso del termine stesso di diritto” come sottolinea il documento. Il primo problema è di carattere igienico. In secondo luogo, la concentrazione di soggetti di diversa provenienza, “molti di loro particolarmente vulnerabili: come le persone richiedenti lo status di rifugiato e le vittime della tratta, che rischiano di trovarsi rinchiuse insieme ai propri carnefici”.
L’assistenza sanitaria, in capo ai gestori dei Cie, è elementare, “tarata sulla precedente normativa che permetteva il trattenimento non oltre i trenta giorni – avverte la coordinatrice del gruppo di lavoro, Grazia Zuffa. – Dopo che il periodo è stato prolungato a sei mesi, l’assistenza risulta del tutto insufficiente e si registrano casi gravi di soggetti non curati a dovere. Inoltre, ci sono grandi problemi per avere la documentazione clinica, nel passaggio dal carcere ai Cie”.
A queste difficoltà, si aggiungono gli aspetti psicologici: “Il periodo nei Cie è vissuto dagli internari come una pena aggiuntiva, per di più con minori garanzie, dato che non si sa quanto tempo dovranno rimanere nel centro, e con minori possibilità di svolgere una qualche attività”.
(Red.)



 
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